Il rumore del tempo

GAETANO PESCE
Il rumore del tempo22 gennaio – 18 aprile 2005

Ad una conferenza dedicata agli insegnanti Gaetano Pesce racconta e spiega la sua mostra. Per prima cosa snocciola i temi fondamentali, stanza per stanza e poi, ogni tanto salta fuori con qualche trucchetto divertente. Vediamone alcuni: la curatrice della mostra Silvana Annicchiarico collabora con dei sottocuratori del tutto particolari: un bambino, un calciatore, un avvocato e altri. La mostra altera infatti il suo aspetto ben 12 volte.

Ci sono numerosi concetti che sono dei punti fissi per Pesce. Uno è la relatività del concetto di bello. La bellezza è un’idea personalissima e questo comporta scelte profondamente diverse. I dodici co-curatori sono stati messi, ognuno singolarmente, di fronte agli stessi oggetti. A ognuno di loro l’arduo compito di decidere cosa è bello e cosa non lo è. Quello che non piace viene coperto con una busta di plastica. Di settimana in settimana la mostra cambia e , in qualche modo rivoluziona il concetto obsoleto e statico di allestimento. La città entra nel museo e ne decide l’aspetto.
Gli oggetti esposti hanno tutti un denominatore comune: la sperimentazione. Già negli anni ’70 Pesce si trova ad utilizzare materiali molto particolari. Spruzza, ad esempio, su dei teli impostati a forma di sedia dell’uretano, il quale, diventando solido, trasforma magicamente la stoffa in un materiale solido e resistente. Numerose ricerche vengono effettuate a favore del silicone di schiume espandenti e di una vastissima gamma di materie plastiche.
Non parla molto del concetto di ironia delle sue opere, non ce né bisogno. Questa diventa palesemente manifesta anche nel catalogo, altra opera d’arte, dove non c’è un pezzo uguale all’altro. Il libro segue il profilo dell’artista, si tratta di un autoritratto dove i materiali sono: setole di maiale, fibre di cocco, silicone, lattice di gomma e stampa serigrafica a colori.

The Andy Warhol Show

Pittore, scultore, fotografo, regista cinematografico, produttore discografico, grafico pubblicitario, redattore di interview ecc. questi sono alcuni dei mille volti della vulcanica creatività di Andy Warhol. La personale dell’artista, presentata alla Triennale di Milano, ha un titolo veramente calzante: the Andy Warhol Show; infatti, in questa edizione, i curatori della mostra: Morera e Mercurio vorrebbero dimostrare come la produzione di Warhol sia incentrata sul significato del verbo to show: mostrare, apparira, far vedere, esibire, esporre, presentare ecc.

Uomo riservatissimo, creerà intorno a sé un’aura di curiosità e ammirazione dettate dal suo totale distacco dagli altri. Warhol possiede una capacità rara: riesce esattamente a cogliere le occasioni che i vari momenti storici gli sembrano propiziare. Irriverente e dissacratore si lancia nel campo artistico scommettendo tutto su sé stesso, la fiducia nelle proprie capacità verrà ripagata largamente. Gli esordi dell’artista sono difficili. Figlio di immigrati cecoslovacchi nasce, nel 1928, a Pittsburgh in Pensylvania. Inizialmente frequenta l’istituto tecnico cittadino e subito dopo il diploma si trasferisce nella “grande mela” 1949. Lavora come grafico e, nel giro di pochi anni, raggiunge i vertici del settore. Diventa uno tra i professionisti più richiesti, vince vari riconoscimenti e collabora con riviste del calibro di Glamour, del New Yorker e di Harper Bazaar. All’apice della carriera abbandona tutto per l’arte. La scelta non sarà facile, vista la condizione di povertà vissuta durante il periodo infantile, eppure alla base c’è una volontà precisa. Wharol sostiene che il lavoro del grafico pubblicitario sia toppo personale. Ogni volta che l’artista studia uno slogan piuttosto che una singola pubblicità, mette in gioco troppo di sé. In maniera lineare i suoi prodotti più famosi sono appunto delle serigrafie. “I’m a machine” sono una macchina. In linea teorica Warhol sostiene che durante il processo di stampa egli sia solamente uno strumento del processo produttivo. Con le prime serigrafie mette “k.o. uno dei concetti storici legati all’unicità dell’opera d’arte.
Durante le interviste volontariamente non risponde alle domande dirette, con gli “amici” frappone il diaframma del registratore portatile. Nessuno può vantare di aver conosciuto realmente Andy. La maschera così creata funziona. D’altro canto l’artista è presente in tutte le occasioni mondane le più glamour di New York, arrivando alla scelta esasperata di affidare ad un sosia le conferenze da tenere presso le accademie e le università americane.
Durante gli anni della carriera artistica mette in moto un meccanismo che diventa sempre più vasto e abbraccia varie sfaccettature dell’universo artistico. Crea the fabbric, la sua fucina newyorchese punto di incontro di numerosi artisti e suo atelier produttivo. In questa sede passeranno e vi lavorano artisti più o meno noti che entreranno nell’orbita Warhol. All’interno della mostra, accanto alle opere d’arte si trovano documenti fotografici che ricreano lo splendore di quegli anni e di quella società. L’occasione milanese ci permette di capire meglio i meccanismi dell’arte contemporanea e di godere di una delle mostre più ampie mai realizzate in Europa su Warhol.
In ultima analisi forse si riuscirà a capire, al temine del percorso espositivo, come Andy sia riuscito a realizzare il suo desiderio: entrare nell’olimpo delle celebrità.